Ci@o, Come Stai?
2008
Simona Barzaghi e Salvatore Falci.
Installazione e performance.
A cura di MariaRosa Pividori, testo di Angela Madesani.
Galleria Dieci.2! Milano
ci@o, come stai? libro
Lubrina Editore
Simona Barzaghi e Salvatore Falci.
Testo di Renato Barilli.
Conversazione con Renato Barilli, Maria Rosa Pividori, Angela Madesani, Ornella Bramani, Ospite Eleonora Fiorani.
Libreria Egea, Università Bocconi Milano
LA MAIEUTICA IN CHAT
di Angela Madesani
Un’operazione come quella di Salvatore Falci e Simona Barzaghi potrebbe essere facilmente etichettata come “arte pubblica”. Due artisti, SK e ET, per circa sei mesi, tra il 2006 e il 2007, si sono attribuiti dei nick name, e hanno iniziato a chattare. Prima si sono costruiti un’identità, una seconda vita, e poi sono entrati nel clan, ponendosi in rapporto, in relazione con gli altri. Nessun trucco, nessun imbroglio. Hanno giocato pulito, si sono rivelati, hanno conosciuto persone, ci sono andati a bere un caffé, a mangiare una pizza-perchè no?- a letto. «Dal reale al virtuale e ritorno senza virtù», per usare le parole di Falci. Il materiale raccolto ora dà vita a un libro di circa cinquecento pagine. È uno spaccato antropologico in cui si intrecciano trame, passaggi esistenziali, giochi, battute, infelicità, drammi: quotidianità. Un’azione di arte contemporanea diviene così opera letteraria. I fogli stampati con la corrispondenza in chat, opportunamente censurati[1][1], sono incorniciati, “impacchettati”, in ordine cronologico, e appesi. All’interno della mostra, inoltre, sono anche due postazioni attraverso le quali i visitatori possono chattare, provare il brivido di un’identità virtuale più o meno virtuosa.
Ma ritornando all’affermazione iniziale, appunto, un’operazione come questa può essere definita “arte pubblica”? Oltre al fatto che le etichette sono quasi sempre un limite, un cassetto troppo piccolo, dove stipare faticosamente le cose. Trovo che il lavoro di Barzaghi e Falci, che hanno operato autonomamente, sia, anzi, un’ottima occasione per fare luce sull’abuso di termini facili, di mode culturali e a maggior ragione artistiche. Falci dagli anni ottanta, dal tempo dei Piombinesi e quindi, nel decennio successivo, quando è uno dei motori del gruppo Oreste, antesignano in molte delle più interessanti operazioni dell’attuale panorama artistico, afferma che il compito dell’artista non è quello di creare, piuttosto quello di fare uscire, come una levatrice. Anche questa è un’operazione maieutica dove i due artisti hanno indotto partecipato attivamente alle situazioni senza interpretarle. Hanno inserito il granello di sabbia nell’ostrica.
Il lavoro di Sophie Calle Take care of yourself (2007), all’ultima Biennale, potrebbe apparire vicino al loro, ma tuttavia là è stata compiuta un’operazione di interpretazione che qui non c’è. Barzaghi e Falci si pongono dentro le cose e non cercano di sottoporcele modificate, sono registratori e allo stesso tempo interpreti delle diverse situazioni. E il pubblico determina effettivamente il risultato finale. È protagonista e quindi coautore. Come di rado accade nella cosiddetta “arte pubblica” e come è stato nelle Esposizioni in tempo reale di Franco Vaccari, a partire dalla fine degli anni sessanta.
1 Per tutelare la privacy di quelli che hanno chattato con loro.
QUANDO L’ESPERIENZA UMANA PASSA PER LA CRUNA DELL’AGO ELETTRONICO
di Renato Barilli
Non conosco altro artista che, più di Salvatore Falci, sia capace di sfruttare il caso in modo sistematico, esasperato, oltranzistico. Un primo capolavoro in tal senso è stata l’opera da lui realizzata sul finire degli anni Ottanta, e da me portata alla Biennale di Venezia del 1990, nella sezione Aperto. Si trattava di una sorta di attrito tra il casuale procedere di esseri umani e un tentativo della natura di salvarsi da quell’involontaria aggressione. Falci in quell’opera, suscettibile di molte varianti, propone una gradinata, per esempio gli scalini dei ponti di Venezia, di cui i passanti umani calcano le parti sporgenti in fuori, non potendo insinuare i piedi nei tratti immediatamente sottostanti al rialzo dei gradini, e dunque in questi tratti destinati a rimanere incalpestati può crescere una magra erbetta, secondo quel timido élan vital che la natura ritrova dove non sia soffocata dalla nostra straripante presenza. Nascono insomma dei muschi stentati, come nella tundra più selvaggia e desolata, quando la vegetazione è lasciata libera di produrre i suoi bei profili biomorfi.
Accanto a Salvatore, lavoravano con quella sua medesima dedizione ai frutti del caso gli altri membri della Scuola di Piombino, Cesare Pietroiusti, pronto a fornirci gli ingrandimenti delle carte appallottolate che gettiamo sbadatamente sul pavimento; Pino Modica, che ci incantava davanti alle ramificazioni della frattura di un pannello di vetro; Sandro Fontana, che traeva tarsie di policroma geometria dai freddi diagrammi delle indagini demoscopiche. Davvero un qualche nostro museo d’arte contemporanea dovrebbe dedicare a questo gruppo un ampio omaggio retrospettivo. Ritornando al nostro Falci, quella sua insistenza d’indagine, in genere egli ha sempre preferito rivolgerla al fattore umano, conducendo su di esso un’inchiesta antropologica a largo raggio. Ricordo un po’ alla rinfusa alcune sue famose prestazioni in tal senso. Nel suo nomadismo di vita, ha speso lunghi periodi in Australia, dove è stato sedotto dal tema del conflitto tra i membri delle comunità aborigene e i discendenti dalla razza padrona anglosassone, e allora ha stabilito tante coppie, ponendo a guardarsi faccia a faccia un rappresentante del primo gruppo e uno del secondo, riprendendo quei duetti col video. Smorfie di accettazione, di ripudio, di fiera contestazione, e così via, in una casistica diramata e complessa, che ci ricorda, da un lato, certi spunti anticipatori del nostro grande teorico del Neorealismo, Cesare Zavattini, con le sue lodi del film a passo ridotto, precursore del video, da usare come elettrodomestico per condurre un sistematico “pedinamento del vicino”. Oppure, da un altro lato, il padre della performance e della Body Art, Bruce Nauman. Un’altra operazione paziente è stata quella di andare a registrare i graffiti spontanei, misti di scrittura e di un rozzo iconismo, che tutti gli internati in luoghi di segregazione tracciano sulle pareti delle celle loro riservate. Ma fin qui, il Nostro rivolgeva il suo interesse antropologico, col connesso ineliminabile riscontro estetico, a gesti, pose, comportamenti che esulassero dalla pratica delle lettere e delle parole, soprattutto se queste pretendono di immobilizzarsi su un supporto cartaceo. Come tutte le avanguardie, storiche e recenti, Falci, ben avvertiva che il dominio che si apre ora agli operatori estetici sta nel saccheggio programmatico delle varie zone sensoriali che esulino dal circuito verbale, e dunque, via libera a fonazioni, graffiti selvaggi, posture, mimiche facciali, e così via. Ma ora questa nuova impresa, ugualmente folle nella sua estensione quantitativa al pari di tutte le precedenti, condotta in stretta collaborazione con Simona Barzaghi, nota artista e performer, l’esito, a prima vista, sta in una serie innumerevoli di fogli cartacei su cui si allineano, come bave d’insetti, proposizioni unilineari, risultanti dallo spingersi innanzi, un passettino alla volta, di file di lettere, fino a un loro naturale estinguersi al termine della riga, per ricominciare subito daccapo in una riga sottostante. Che cosa è successo? Dopo tanto agitarsi di tutti gli operatori del nostro tempo, al fine di solcare gli spazi intersensoriali, come mai si ha questo nuovo approdare a una scrittura timida, unilineare, monotona nel suo risultare da un picchiettio su pochi tasti? Ma in realtà, quel che vediamo è il risultato di un filtro, quasi un passato di verdura, o il cordoncino tremulo di pasta, di spaghetti che escono con qualche fatica da uno stampino. In proposito mi vanto di aver utilizzato una metafora che credo efficace, quella della cruna dell’ago attraverso cui il sarto abile o la brava massaia devono far passare il filo tessile, di minimo calibro, costretto a depositare all’ingresso di quel tunnel ogni possibile ingombro. Da che cosa è data la nostra cruna metaforica? Evidentemente, dalle forche caudine del procedimento imposto dal computer, grazie al quale l’espressione affidata alla lettera riacquista credito, ma purché appunto si sottoponga a una prova di eccezionale magrezza. Le lettere ritrovano un peso, nel nostro universo diversamente così aperto a tutti gli altri sensi, miracolosamente ritrovati proprio grazie alla registrazione elettronica, purchè si affidino al gesto minimale della digitazione sui tasti, ottenendo però tutti i vantaggio connessi. Il gesto è elementare, monotono, ma quelle letterine, cui infliggiamo il torto di passare attraverso un buco stretto e smunto, da quel momento navigano incontrastate per l’etere, e vanno a stamparsi, col medesimo ritmo sincopato, al terminale di un altro computer, pronto a restituire il bene prezioso, istantaneo, illimitato, di quella sorta di puntinismo verbale. È questo il chatting, operazione universale che oggi lega tra loro tutti gli esseri umani, indipendentemente dai luoghi geografici, dai sessi, dalle classi e ruoli sociali. Oppure no, tutti questi essenziali dati antropologici sopravvivono, anzi, vengono incitati ad esprimersi al massimo, ma purché accettino di sottostare a un filtro ineliminabile, o appunto alla cruna dell’ago. La ricerca d’avanguardia del secolo appena passato aveva perfettamente inteso la necessità di impostare simili operazioni totalizzanti, basti pensare al Finnegans Wake di Joyce, immane ricostruzione dei mostri linguistici partoriti dal lavoro onirico lungo una notte. E Warhol, si sa, aveva filmato i movimenti involontari, i borbottii emessi lungo un uguale spazio temporale da un dormiente. Ma l’uno, Joyce, aveva pur dovuto inventarsi le parole capaci di recare in sé i cortocircuiti del sognatore, e l’altro, Warhol, aveva dovuto fermarsi alla pelle esterna dei dormienti. Oggi è possibile porsi all’interno di quei processi psichici ed espressivi, ma lasciando che si facciano da sé, pazientemente, una digitazione dopo l’altra. E vengono fuori così queste varie tranches de vie registrate da Falci e Barzaghi con infinita pazienza, quasi confessioni, altra metafora valida, dato che pure in quel caso il flusso degli intimi pensieri della persona genuflessa filtra attraverso i forellini dell’interfaccia che la separa dal confessore. Nel nostro caso, però, non c’è un confessore, con pretese di giudicare, bensì un altro essere umano che ricambia con un pari flusso di confessioni libere, pronte, certo, a scambiare pareri, valutazioni, ma senza un metro fisso, nel nome della più larga disponibilità ad accogliere, a comprendere. E così, si allungano i vermi in cui si parla del sesso, del lavoro, della cucina, magari pure di qualche innocua ambizione di crescita sociale. E’ dunque una rivincita del letterale, perfino con ricaduta nel letterario, in un momento in cui credevamo di aver detto un addio finale alla galassia Gutenberg, o comunque ai riti delle lettere depositate su supporto cartaceo? Ma a ben vedere quest’emissione di base si pone anteriormente, per esempio, ai generi letterari. Il chatting tocca tutte le latitudini dell’espressione letteraria, conosce toni lirici, abbozza situazioni prosastiche, ma si ferma pur sempre a livelli preliminari, il verme verbale che esce dal filtro è un omogeneizzato buono per ogni uso. Se gli si volessero applicare le norme della narrazione vera e propria, si dovrebbe lamentare l’assenza del plot, dell’intreccio. Come vanno a finire gli infiniti dialoghi che si snocciolano davanti a noi? Le due persone che stanno chattando si incontreranno, nascerà una relazione, o, alla lettera, un complotto, metteranno in cantiere qualche azione in comune, con un esito compromesso in un senso o nell’altro? Tutto si ferma a uno momento anteriore, è come un mosaico di cui ci sono date le infinite tessere, ma senza la pretesa e la possibilità di comporle in un senso preciso, in una narrazione ben sviluppata. In questo caso più che mai la collaborazione congiunta di Falci e della Barzaghi conduce a una splendida sollecitazione del caso. C’è un aneddoto legato al trionfo della statistica, secondo cui uno scimpanzé che fosse libero di pestare a casaccio i tasti di una macchina da scrivere, oggi si direbbe di un computer, in un certo numero calcolabile di anni farebbe saltar fuori qualche immortale capolavoro della letteratura universale. Allo stesso modo, sentiamo che queste confessioni unilineari grondano di storie potenziali, forse a insistere verrebbero fuori costellazioni capaci di rendere un senso compiuto, ma è più suggestivo fermarsi in questa zona massimamente aperta a tutti i possibili esiti.